BRUTALIA
Esistono archetipi e miti che compaiono con frequenza in uno dei luoghi classici dove si parla nel sonno, ovvero nel cinema porno. Così, ad esempio, Marilyn Chambers possiede un'immagine fisica ed un modo di porgerla degni di qualche riflessione. Non troppo proporzionata, gambe un po' corte rispetto al busto, la protagonista di Behind the Green Door ha una figura da atleta, quasi androgina: gli addominali e i bicipiti sono sviluppati e muscolosi; durante i coiti svela ad ondate, con contrazioni improvvise, la sua robustezza nervosa: Chambers va a cercare e a cacciare l'uomo con ruvidi movimenti di glutei e cosce, lo afferra, se ne impossessa. Il viso stesso, sulle ali della forza espressa dal resto del corpo, subisce nel corso delle sue performances un vero e proprio ribaltamento: i connotati gentili si perdono in un'aggressività che svela il ruolo della donna negli U.S.A., quel ruolo di potente matriarca interpretato bene tanto dalla bianca Clinton che dalla negra Rice in politica, e messo in farsa patologica tanto dai fumetti s/m del negro Eneg che del bianco Stanton. Qui, dove le donne fanno le soldatesse in prima linea dimostrando nei fatti che non esiste differenza morale rispetto all'altro sesso, siamo nel regno delle Amazzoni di Bachofen.
Se Chambers ha dalla sua una cristallina limpidezza d'intenti - per cui nessun ruolo decorativo inessenziale si sovrappone al suo prostituirsi mediatico ed anzi si potrebbe dire che acquisisce spessore, significato e carattere chiavando (un po' come accade alle protagoniste di Tre figlie di loro madre, ma qui parliamo di personaggi e lì di una persona) - per Lydia Lunch il discorso è diverso. Questa miss punk - musicista, scrittrice, attrice e sceneggiatrice di diversi corti di Kern - appare piuttosto confusa quanto a politica e sessualità. Adornianamente macchia e non bosco sacro (coi suoi fumosi e interminabili monologhi interiori, che non trovano fine neppure quando un pio figurante la imbavaglia col suo membro), la Lunch non si sottrae alle performance più brutali (da interpretarsi come doveroso tributo alla cultura giovanile inaugurata dai Sex Pistols), si tratti di masturbazioni col manico d'un coltello come di penetrazioni con canne di pistole o di poderosi fist-fucking - salvo poi lamentarsi (in Meduse Cyborg) delle infiammazioni vaginali come di un fatto sessista legato alla spirale e alla mancanza di preservativo durante l'amplesso... ecco la donna liberata - ma intimamente ancora schiava: da qui la sua confusione -, la Carmen degradata dei nostri giorni così amata da molti criptomasochisti che riconoscono in lei, al fondo, una loro simile.
Si dice che la capacità lavorativa degli immigrati cinesi sia impressionante (anche 12 o 14 ore al giorno senza staccare neppure per il pranzo): quel che so io è che in un suo film Annabel Chong stabilisce un record quanto a coiti facendosi possedere da centurie di uomini e che, cosa per certi aspetti più impressionante, nei suoi video non copula mai con meno di due partner alla volta; di rado mancano le doppie, e più spesso triple, penetrazioni; con lei ci troviamo di fronte ad un altro mito dei giorni nostri, importato negli U.S.A. dal mondo del socialismo reale attraverso un'immigrata: quello dello stakanovista, in cui il lavoro-sesso senza tregua porta fino al primato. La nostra sino-americana, tuttavia, non ha raggiunto i vertici della pornografia con le performances citate, bensì col casto documentario di Gough Lewis Sex. The Annabel Chong Story: qui lo spettatore è introdotto in casa degli anziani genitori della ragazza (che nulla sanno della sua attività, vivendo dall'altra parte del mondo) e spia la sua confessione alla madre, fra lacrime di vergogna per la carriera di prostituta mediatica e gemebondi ricordi d'infanzia; come abbia fatto la telecamera a rubare la realtà pornografica del sentimento, resta un mistero tutto da chiarire; davanti a tanto cinema-verità bisognerebbe munirsi di due schermi e far scorrere in parallelo le lacrime della Chong su uno e i suoi amplessi sull'altro. Così si otterrebbe finalmente la falsificazione completa.
Marina Hedmann, alias Marina Frajese, alias Marina Lotar porta incastonato nel suo mutevole cognome il riflesso di un archetipo sociale che risale almeno all'epoca di Tiberio; ma procediamo per gradi. La fotomodella svedese Hedmann sposa il giornalista televisivo Paolo Frajese; le sue velleità artistiche la conducono ad interpretare alcune commedie erotiche e quindi a fare il grande salto passando all'hard; a questo punto, com'è "naturale", la sua posizione sociale cambia notevolmente di status, passando dall'aura di rispettabilità matronale a quella di imbarazzante presenza pubblica e anche dal matrimonio al divorzio; da qui in avanti, la corsa di Marina Lotar diventa sfrenata per il nostro canone sociale, che la ripudia in pubblico e la invidia in segreto. Eppure, nulla di nuovo nel suo comportamento: "Nei primi anni del regno di Tiberio [...] certe matrone si fanno iscrivere apertamente negli elenchi delle prostitute tenuti dalle autorità di polizia. Questo permetterà loro, pensano esse, di amare liberamente chi vogliono senza incorrere in sanzioni [ma un senatoconsulto del 19 d. C. non permette la prostituzione alle donne d'alto rango] [...] esse sacrificano il posto che occupano nella società alla loro libertà di costumi" (C. Salles, I bassifondi dell'antichità). Marina e le antiche matrone meritano, insieme alla culturale eccitazione, tutto il rispetto dovuto a chi è capace di seguire la propria idiosincrasia anche a costo di "gettar via" la propria esistenza.
Moana Pozzi, fino a che è stata viva immagine non più significativa di altre (anche se non priva d'importanza pubblica, in dittico con Ilona Staller, che ha costruito la propria fortuna sull'archetipo della donna angelicata da degradare in mille modi), una volta morta ha acquisito - come accade a parecchi artisti - un rilievo erotico eccezionale e, in un certo senso, non perfettibile. Per esprimerlo, riprenderò un noto passo di Bazin: "Immagino la suprema perversione cinematografica come la proiezione di un'esecuzione all'inverso così come in quei cinegiornali comici in cui si vede il tuffatore schizzare fuori dall'acqua verso il trampolino[...] la rappresentazione sullo schermo della messa a morte [...] è nel suo principio altrettanto emozionante dello spettacolo dell'istante reale che riproduce. In un certo senso perfino più emozionante, poiché essa moltiplica la qualità del momento originale col contrasto della sua ripetizione. Gli conferisce una solennità supplementare. Il cinema ha dato alla morte di Manolete un'eternità materiale. Sullo schermo, il torero muore ogni pomeriggio"(Che cos'è il cinema?). Come si ricorderà, il critico francese pone sullo stesso piano della morte, quale fatto pornografico irrappresentabile sullo schermo, il sesso; con Moana morta abbiamo entrambe le cose in un sol colpo: semplicemente inserendo la vhs di Scandalosa Moana nel video, la si costringe a riprendere vita, lo voglia o no, a dedicarsi alle sue performances sessuali - neanche da morta può star tranquilla - e a terminare il film assassinata per gelosia. A commento degli assedi dei suoi partner, valgano la frase di Linda Lovelace a proposito di Deep Throat: "Ogni volta che qualcuno vede questo film, sta guardandomi mentre vengo stuprata", oppure, ma solo perché la realtà la neghi, quella di Therese Stanton: "Che vi piaccia o no, è giunta l'ora che allontaniate le vostre fantasie dal mio culo". Con ciò si svela la verità essenziale della pornografia, brillantemente sintetizzata da Andrea Dworkin in Intercourse: "Ogni violazione del corpo della donna può diventare fatto sessuale per l'uomo". Come il cadavere elettrificato in Phoebe Zeit-Geist, Moana ricomincia a vivere e ad essere stuprata non da morta, ma proprio perché è morta: prima faceva sesso volontariamente, adesso è la tecnologia che la costringe ad una risurrezione elettronica in cui lei non ha alcuna voce in capitolo. La domina, e, peggio di una SS, nella sua persecuzione non si arresta neppure di fronte ad un cadavere. Ma contemporaneamente, lo voglia o meno, fa anche altro: nel più celebre film di Buttgereit, Nekromantik, il protagonista si suicida in un'orgia di sperma e sangue mentre, frammentato per tutto il corso della pellicola, lo sbudellamento di un coniglio scorre bazinianamente al contrario fino far tornar in vita lanimale; questa scena ottimistica "mostra che ciò che è stato distrutto è ora ricostruito; vecchie ferite guariscono e cose cattive diventano di nuovo buone" (l'autore, intervistato da D. Kerekes in Sex Murder Art) - ovvero, ambiguamente, grazie al cinema una promessa di vita torna in Moana a prezzo della temporanea morte dello spettatore, quella che per la durata della visione lo pietrifica in cinico tecnonecrofilo. Quando poi lui, tornato in sé dalla trance, si volta indietro come Orfeo per guardarla, come Euridice lei scompare.