INCREDIBLY STRANGE FILMS

Nel 1986 esce "Re/Search # 10: Incredibly Strange Films", un numero di particolare importanza della pubblicazione di Juno e Vale perché in sostanza si pone a tutt'oggi come fonte remota per lo studio e la rivalutazione di film dei generi e dei registi più stravaganti, ancorché ignorata in Italia -- perché non tradotta -- da molti dei cultori di cinema Bis o Zeta; a onor del vero, va comunque ricordato che proprio da noi si cominciò a sentir parlare di Eddie Romero o Jesus Franco, tanto per far due soli nomi-spazzatura, fin dal 1976 ad opera del pioniere Teo Mora, con la sua Storia del cinema dell'orrore.

"Re/Search # 10" ci propone: interviste (con Henenlotter, H.-G. Lewis, Steckler & Brandt, Mikels, Russ Meyer, Bakalyan, Sarno, Friedman, Wishman, Larry Cohen); articoli sui generi (motociclisti, delinquenza giovanile, party sulla spiaggia, droga, donne in prigione, mondo-movie, lottatori mascherati, Ed Wood Jr., erotici, filmati educativi e industriali sui rischi -- certo, questi ultimi due filoni appaiono di una stranezza al quadrato, però si pensi al recente Final Destination e lo sembreranno molto meno); saggi su singoli film (Young Playthings, Wizard of Gore, God Told Me To, Blast of Silence, Daughter of Horror, Spider Baby e sulla produzione complessiva di George Romero); chiudono l'opera un indice dei nomi, riccamente annotato, di personalità e personaggi cinematografici esclusi per varie ragioni dal testo, delle citazioni tratte dalle pellicole e una lista delle opere preferite dai curatori (fra i quali spiccano il nome del musicista Boyd Rice e quello dell'artista multimediale Mark Pauline). "Incredibly Strange Films" si presenta come una sorta di guida che esamini quelle zone della produzione cinematografica estranee, quando non addirittura in aperta opposizione, alla "nozione di buon gusto, che funziona come un filtro per chiudere fuori intere aree di esperienza giudicate -- e condannate -- come indegne di indagine" (Introduzione); tuttavia, il testo di Juno e Vale si segnala perché alcune interviste lasciano trasparire qualcosa in più rispetto a quanto ci si aspetterebbe di trovare in un onesto baedeker del marginale, e restano nella memoria quasi come passi di un saggio filosofico.

Credo fosse Heiner Müller a dire che utilizzava l'intervista come un metodo comodo e poco impegnativo per formulare teorie estetiche senza faticosi apparati teoretici: lo stesso si potrebbe osservare almeno in parte per Henenlotter e Lewis. Il primo, noto soprattutto per l'horror Basket Case, si dimostra impietosamente sincero nei propri confronti quando rivela che, pur non essendo affatto un cultore della violenza nella vita reale, si trovò all'affannosa (e inutile) ricerca di uno snuff per sapere come si sarebbe comportato di fronte ad esso, cosa avrebbe fatto di questo eccesso ultimo; la sua contraddittorietà appare evidente in questa dichiarazione: "L'horror della vita reale, come prender un bambino e ucciderlo mentre lo si filma, non è un horror con cui qualcuno di noi vorrebbe avere a che fare. Certo non vorrei comprarlo in videocassetta. Così questi sono limiti. Non voglio veder filmati di campi di concentramento -- non posso sopportarli e non vorrei mai. Così immediatamente sorge un problema: vai avanti, ma non spingerti troppo lontano. Non sono qualcuno che può risolvere questi problemi" (la sottolineatura è mia). È difficile aggiungere qualcosa a queste parole, da un lato perché il regista disarma col suo farsi cogliere privo di risposte, come nel corso di una riflessione ancora in divenire ma che non può concludersi, e dall'altro perché la questione dei limiti sollevata da Henenlotter può essere facilmente trasportata in altri campi, anche assai lontani dal cinema: per fare un solo esempio a livello di luogo comune, fin dove deve spingersi la scienza? E più in generale, quali sono le nostre colonne d'Ercole?

Una parziale risposta a questa seconda domanda si può forse ricavare leggendo fra le righe dell'intervista ad H.-G. Lewis, assai più freddo nel dibattere la questione relativa alla violenza al cinema: per lui si trattò di girar film sempre meno accettabili socialmente, e di giungere per questa via alla creazione del gore, in cui sangue e sevizie si sprecano (si pensi a Blood Feast, che in sostanza fu l'archetipo di tutta la produzione slasher del secondo Novecento: da Tobe Hooper ad Argento, da Craven fino a Carpenter e a Cunningham), senza mettere neppure lontanamente in discussione i limiti della finzione, quel luogo democratico per eccellenza che permette sempre di tornare indietro, consentendo di uccidere i propri personaggi e di farli resuscitare in modo del tutto amorale e pertanto aproblematico (in senso esistenziale), e che tuttavia sposta verso territori sempre più estremi i propri confini interni (si pensi a Guinea Pig 2: Flower Of Flesh And Blood di Hideshi Hino, che a quanto pare inizialmente trasse in inganno anche degli esperti dell'FBI) in corrispondenza con le possibilità tecnologiche, con l'abitudine ad esser quotidianamente shocckati dall'immagine e quindi con i mutamenti stessi della definizione di shock. Il positivo cinismo del regista (e del suo produttore Friedman) è evidente quando afferma che la scelta di questo tipo di cinema fu presa con metodo e calcolo, senza alcuna ragione di ossessione personale, ma semplicemente in base ad un elenco dei temi che le major non potevano o non volevano toccare; lo scopo: i soldi, com'è ovvio, ottenuti facendo sì che il pubblico avesse moti di repulsione e insieme si divertisse, grazie ad una talvolta grossolana, talaltra raffinata, unione di grottesco e humour (un esempio: in Gore Gore Girls una vittima viene assassinata mentre sta facendo una bolla con un chewing-gum, bolla che molto opportunamente si colora di rosso). Lewis si limita a schiacciare i tasti giusti per provocare determinate -- e volute -- reazioni nello spettatore, dalle quali mantiene un distacco olimpico (a differenza di Henenlotter), distacco da ipnotizzatore che forse non va disgiunto dall'importanza vicina allo zero che annetteva a se stesso in quanto autore -- un concetto, questo, che andrebbe rivisto e corretto una volta considerati i danni che non cessa di procurarci: infatti, laddove si concede eccessivo rilievo all'espressione dell'io, si tende anche a dargli l'ultima parola su ogni questione come se si trattasse di una divinità, quando l'individuo è roso semmai da una problematicità, da un'indecidibilità che non è solo di Amleto bensì di ogni contemporaneo e che resta priva di soluzione all'interno del proprio universo di discorso: queste, tutto sommato, sono le vere colonne d'Ercole da oltrepassare per quasi tutti, riuscire a diventare in senso positivo "meno di uno" (H. Müller), riuscire ad immaginare con una certa serenità il mondo anche senza la nostra presenza (Brecht). L'istintivo -- non meno che pragmaticamente americano -- rimedio dell'"autore" di 2000 Maniacs! è semplice: non mettere nessun ego al centro dei propri film e semmai condividere gli spazi di creatività con la troupe, che a quanto pare inventò addirittura alcune delle scene più interessanti delle pellicole di Lewis, interessanti -- beninteso -- non sotto il profilo dell'espressione, sia pure collettiva, ma sotto quello delle reazioni del pubblico.

Come corollario a quanti trovassero troppo disinvolta la trattazione del problema della violenza rappresentata nella nostra epoca, mi piace ricordare che Larry Cohen, dopo esser stato in visita alla National Gallery di Londra, rimase stupefatto percependo -- probabilmente grazie ad un'invidiabile capacità di straniamento -- la violenza estrema delle crocifissioni, dei martìri e delle scene di stupro rappresentate su antiche tele religiose. È proprio vero, "se hai la Bibbia dalla tua parte puoi farla franca con qualunque cosa" (Intervista: Larry Cohen); non solo, col tempo ciò sembra anche talmente naturale che nessuno se ne accorge più.